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INTERVISTA A ROBERTA

Noi clan sirio del rovigo 2 abbiamo intervistato Roberta, un’operatrice della cooperativa Porto Alegre, sul tema dell’immigrazione. Il nostro obiettivo, oltre ad ampliare le nostre conoscenze sull’argomento, era quello di affrontare le questioni più spinose e attuali legate al tema, ponendole soprattutto le domande più comuni sugli argomenti di maggiore discussione. Ne è emersa una chiave di lettura originale, che offre spunti di riflessione differenti da quelli più diffusi da stampa, politica e opinione comune.

 

Ma non possiamo aiutarli a casa loro?

Io credo che sarebbe bello riuscire ad aiutarli “a casa loro”, ma prima bisognerebbe venire via da casa loro. Noi europei stiamo perpetrando il colonialismo; lo chiamiamo sotto nuove formule ma stiamo continuando ad essere invasori “a casa loro”. In questo momento in Africa ci sono circa una cinquantina di Paesi e quasi tutti con pochissime eccezioni hanno Paesi europei o Russia, Cina, America che intervengono nella loro amministrazione, in termini economici, politici e di risorse. Stiamo tutti cercando un equilibrio di potere, e il campo neutro, o quello che per lo meno è più debole, è l’Africa. Quindi in questo momento, a seconda della storia del Paese o a seconda della tradizione (perché in cinquanta stati non è tutto uguale) se parlo di Eritrea parlo di Italia, se parlo di Congo parlo di Belgio, se parlo di Niger parlo di Francia, se parlo di Nigeria parlo di Inghilterra: ogni Paese ha la sua. In questo momento noi siamo ancora là e dettiamo le leggi europee.

È da anni che l’Europa manda due tipi di fondi: la cooperazione internazionale e tutte le ONG, che lavorano là e che costano moltissimi soldi, oppure impegni militari ed economici. I governi africani fanno trattati economici a tasso 0 con aziende multinazionali, con contratti che non permettono nessun guadagno per il Paese e nessuna tassa per il prelevamento dei beni. Per esempio: il Congo è il Paese più ricco di risorse d’Africa ed è contemporaneamente il più povero. È pieno di risorse ma noi (e intendo tutto ciò che è extra-africano) le rubiamo e in cambio non diamo niente. È imbarazzante.

In questo momento 14 Paesi hanno il franco sefa: la moneta è decisa dalla Francia e l’80% del suo valore economico è nelle banche francesi. Quindi la frase “aiutiamoli a casa loro” è interessante ma è arrogante. Falsa. Ipocrita. Un modo per farlo? Farli venire qui e farli lavorare, poiché quasi tutti i soldi che guadagnano li mandano nel loro Paese d’origine. Se vogliamo veramente aiutare qualcuno “a casa sua” facciamo venire qui la sua famiglia, perchè l’immigrazione è così: qualcuno viene qui e nel frattempo lavora per le persone a casa, manda i soldi e intanto in Africa si va a scuola.

Una volta ero anch’io per la cooperazione internazionale, adesso non più. Quando sono stata in Sudan, 3 settimane, alla fine della seconda settimana sono andata ad una festa di tutti gli operatori internazionali delle ONG. Erano tutti coloro dei quali pensavo “Fa proprio quel lavoro che vorrei fare io!”. FAO, OIM, ACNOR, c’erano tutti, persone più o meno dai 25 ai 50 anni di tutte le nazionalità, tranne sudanesi. In Sudan è vietato l’alcol, ma dentro quella casa era una serata in cui si poteva bere: fondamentalmente tutti gli occidentali si trovavano e potevano far serata, chi più o chi meno brava. Ad un certo punto ho chiesto:

“Dev’essere bellissimo fare questo lavoro, chissà da quanto tempo conoscete i sudanesi!”

Inaspettatamente, la risposta è stata negativa: i contatti tra operatori e abitanti locali erano stati pochissimi.

Poi ho fatto la stessa domanda ad un altro operatore, di un’agenzia del ministero degli esteri e lui ha risposto dicendo che “Noi andiamo là con simpatia, intanto mappiamo il territorio e poi se l’esercito deve arrivare sappiamo già come muoverci”. È che all’italiana facciamo così: i francesi arrivano già con l’esercito mentre gli italiani arrivano prima con la cooperazione internazionale e poi, se necessario, con eserciti di supporto ad eventuali azioni militari locali. L’agenzia per la cooperazione internazionale del ministero è in fondo una copertura. Non vanno là vestiti da pecorelle e in realtà sono leoni: vanno là da pecorelle ma poi sanno che alla fine il lupo deve arrivare.

Quindi: sì, aiutiamoli a casa loro, ma andandocene noi via per primi. Ma veramente tutti. Dalla Chiesa alle altre associazioni: tutti dovrebbero andarsene. Poi, quando i Paesi si saranno ripresi, ci potranno dire di cosa hanno bisogno per ripartire e allora potremo venire incontro ai bisogni che effettivamente hanno, non a quelli che noi pensiamo abbiano. Ci sono alcuni bisogni che sono fondamentali: l’istruzione, la salute… Su questi noi siamo molto più forti: portiamo là le nostre competenze! Ma in primis dobbiamo formare loro. La differenza di reddito è troppo grande e loro mancano davvero di possibilità, perché c’è un sistema malato di condurre la società. Europa, America, Asia e Russia sono responsabili di questa cosa, quindi è ipocrita dire “aiutiamoli a casa loro”.

Perché non accogliere solamente chi può venire a lavorare seriamente?

Tutti vogliono venire qua per lavorare seriamente, poi è anche vero che molto spesso loro non comprendono, una volta arrivati in Italia, quali siano le abilità e le competenze da mettere in gioco per la ricerca del lavoro in questo Paese. Ad esempio, tipico di Nigeriani e Gambiani è un certo lassismo, il non voler mai imparare definitivamente la lingua italiana, ma vi assicuro che tutti emigrano con l’idea di lavorare.

Voi mi direte: “E perché non accettare solo chi ha effettivamente conoscenze e competenze per lavorare in Italia?”. Proviamo a pensare quali lavori noi offriamo a queste persone. In generale si distribuiscono in due settori: agricoltura e ristorazione, per i quali non sono richieste particolari competenze. La Germania su questa questione fa un ragionamento molto più sottile e funzionale a sé stessa: ha deciso di prendersi tutti i laureati siriani, affermandolo pubblicamente e a più riprese. In Italia invece, un laureato siriano non potrebbe neppure fare l’operatore ospedaliero perché non c’è una riconversione dei titoli, e questo va avanti da anni. Un medico che arriva in Italia non può esercitare questa professione perché la laurea non è riconvertibile: al più può fare la terza media per un anno, un corso per OSS per un altro anno e poi provare a cercarsi un lavoro per guadagnare qualcosa per prendersi una laurea e forse alla fine diventerà dottore. In Germania lo stesso medico siriano dopo un mese lavora. È logico dunque, che tutti coloro che detengono un titolo importante o una professione non si fermano di certo in Italia.

Per riassumere, la domanda risulta essere mal posta dato che siamo noi i primi a non fare le cose seriamente. Dessimo la possibilità alla gente di lavorare, vi assicuro che lavorerebbero tutti. Disponiamo degli adeguati strumenti di formazione, anche per ragazzi molto giovani che in un futuro potrebbero contribuire con il proprio lavoro al benessere di questo Paese.

C’è anche un’altra questione in merito da tenere in considerazione: in Italia attualmente vige il Decreto Flussi che stabilisce che annualmente la nazione può accogliere un massimo di 10 000 persone per lavoro stagionale, sia in agricoltura che nel turismo. Nella realtà dei fatti non arrivano mai tutte queste domande perché né il datore di lavoro né il lavoratore riescono a superare tutta la burocrazia per concludere la pratica. Ancora una volta quindi la risposta a questa domanda è una responsabilità italiana.

Quanti soldi prendono davvero al mese? E con questi “pochi” soldi come fanno a permettersi uno smartphone?

I 35€ al giorno non sono realmente questa cifra, variano a seconda della zona e lo saranno ancora per poco perché sta per arrivare un nuovo decreto che li porterà a 19€. Di questi 35€ una ventina servono a pagare vitto, alloggio e spese di base, 13€ rappresentano il costo di tutti i servizi che vengono dati alla persona (scuola, insegnanti, assistenti sociali, psicologi, mediatori…), 2€ sono effettivamente quelli che vengono dati a loro. Questi 2€ rappresentano un retaggio delle prigioni italiane, che erano solite rilasciare ai detenuti una sorta di “mancetta” per potersi comprare tabacco, sigarette o quant’altro. Quanto dunque percepiscono al mese? 60€ circa. E come fanno a permettersi uno smartphone? Semplice, si mettono da parte la “mancetta” come tutti. Lo smartphone tra l’altro, oltre ad essere un potentissimo mezzo di informazione che facilita, oltretutto, l’apprendimento della lingua, è anche l’unico strumento di cui dispongono per rimanere in contatto con familiari, amici e parenti sparsi per il mondo. Non dimentichiamo inoltre che lo smartphone ha salvato diversi barconi perché tramite esso si riesce a mandare il segnale per i soccorritori, quindi in molti arrivano qua direttamente con un cellulare. Poi è ovvio che per comunicare meglio, soprattutto con persone lontanissime, la qualità si paga a un prezzo maggiore ed essendo per tutti loro una necessità, in molti sono disposti a stanziare anche tutti i loro risparmi di mesi pur di permettersi uno smartphone efficiente.

Non ti vergogni quando sei con loro?

Sì. O meglio: mi vergogno per gli italiani, perché se io entro in un bar con un ragazzo immigrato per prendere una cioccolata mi guardano tutti. E loro si sentono guardati. Non sopportano più questa cosa. In questo momento mi sto confrontando con un nuovo collega africano: lui non è venuto attraverso la migrazione forzata ma per lavoro si è trovato in Italia. E lui dice: “Se salgo sul treno e apro la porta è come se avessi un faro su di me. Un faro, finche’ non sono andato a sedermi”. E vivere tutti i giorni questa cosa è pesante. Io non so dire se sia già razzismo, ma dico che non consideriamo normale che una persona entri in un bar e prenda una cioccolata. Non è normale.  Non è normale salire su un treno? Sta diventando non-normale. È razzismo? Non lo so, però non è bello.

“Razzismo” è una parola che io vorrei usare in maniera precisa, perché altrimenti tutto è razzismo.

Segue il racconto di un episodio nel quale Roberta, aiutando due ragazzi afghani a trovare casa si è sentita rifiutare e riattaccare il telefono da una proprietaria subito dopo aver menzionato che la casa sarebbe stata per i due ragazzi stranieri.

Cos’è questo? E con E., afghano, bianco, che mi guardava e mi diceva “cos’ha detto?”. Io mi vergognavo.

Roberta ha poi raccontato di un recente convegno nel quale è stato messo in luce il mutamento sociale per il quale ora, rispetto ad anni fa, viene legittimato l’esprimere apertamente giudizi di stampo razzista e xenofobo, i quali sono ormai usciti dal limite della sfera del privato.

Mi hanno fatto notare una cosa. Non voglio andare contro Salvini come ministro dell’Interno, però c’è una frase che lui sta dicendo che mi ha molto colpita. Quando tu fai un’accusa o dici qualcosa a Salvini, lui ultimamente risponde così: “Me ne frego”. Se non avessi studiato la storia, il suo sarebbe un semplice “me ne frego di quella che è la tua opinione”. Tu vuoi dirmi che sono immorale perché ho buttato giù un centro di accoglienza fatto solo di tende con le ruspe? Me ne frego, perché io lì ho portato la legalità. Quindi me ne frego di quello che tu dici. Attenzione, perché quel “me ne frego”  è molto simile ad un altro “me ne frego”, ma la gente pare che non colga. Perché? Cosa è cambiato?

L'utilizzo del linguaggio nella nostra società è un elemento importante. Chiunque si sente in diritto di utilizzare termini sbagliati, talvolta offensivi, senza pensare davvero al loro significato. Molte parole se usate scorrettamente urtano la sensibilità altrui dimostrando inoltre ignoranza e disinformazione. Perfino i politici pur di accattivarsi i cittadini utilizzano questo lessico sbagliato al posto di lottare contro la disinformazione.

L'informazione è alla base del rispetto: conoscendo e accettando le differenze culturali si è in grado di vivere nel rispetto soprattutto della sensibilità altrui. Essere consapevoli delle proprie parole, delle proprie scelte politiche e morali e delle diversità culturali, rende capaci di analizzare la realtà da molteplici punti di vista. Questo è l'unico modo in cui si comprende come "diverso" non sia sinonimo di "sbagliato". L'effetto dell'etnocentrismo (ideologia che si sta diffondendo a macchia d'olio in questi anni nelle varie nazioni europee) è la ricerca di un "nemico" contro il quale convogliare tutte le proprie energie. È quasi come se l'insieme dei cittadini fosse un esercito di soldati che si sentono accomunati da un lato dal fatto di avere un capo in comune e dall'altro dall’ avere anche un nemico comune contro cui "combattere". Ciò rafforza l'identità dei cittadini ma è un meccanismo che rivela come in realtà i veri e sani valori su cui dovrebbe fondarsi tale identità siano estremamente deboli se non inesistenti.

Questo processo costante di informazione ha come protagonisti i giovani, che solo così possono essere in grado di leggere in modo autonomo la realtà e agire di conseguenza.

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